Come la vide entrare nel locale, il cuore di Argo iniziò a
palpitare energicamente come tutte le volte che la incontrava: nemmeno i
violenti kumite del dojo in vista di una battaglia, gli provocavano tali
detonazioni cardicache . Pensò che fosse
così strano che amore e paura, provocassero la medesima sensazione corporea.
Restò a guardarla ammaliato fiutandone il profumo floreale
che si era lasciata alle spalle, che tanto gli ricordava la fioritura
primaverile dei boschi vicino a casa sua. Nulla lo rendeva fragile come le
donne, lui che si considerava lontano dalle debolezze; qualcuno lo avrebbe
definito un duro ,ma egli si sentiva piuttosto un “indurito”: indurito da un
padre anaffettivo; indurito dalla quasi mancanza di amici in fase
adolescenziale; indurito dai bulli a
scuola; indurito da datori di lavoro tronfi e ignoranti ; indurito dal fatto dal
sentirsi incompreso e che gli unici che sembravano capirlo, vivevano con lui la
clandestinità di un dojo abusivo.
Fu quando vide riaprire la porta, che un giovane uomo molto
alto e magro e avvolto in un lungo soprabito nero ,che le sue palpitazioni si appaiarono ad un’orribile morsa alla gola: quel giovane dalla
fronte velata da un cespo di lucidi capelli corvini, che facevano da sipario ad
un paio di occhi verde smeraldo incassati in un viso dai tratti delicati, si sedette
sulla sedia dirimpetto a lei che come lo vide, distese le labbra in un sorriso
che avrebbe placato persino un berserkr in preda a furore assassino.
“Potrebbe essere un
suo amico” fu un pensiero palliativo così stupido da farlo vergognare: di fronte alla gemellarità di ciò che facevano i
due nel passarsi un bicchiere, nel condividere del cibo e in generale dallo
scambiarsi piccole attenzioni, era chiaro che non solo avevano una relazione,
ma che era datata e profonda.
Più guardava i radiosi sorrisi con cui rischiarava il volto
del suo caliginoso cavaliere, più Argo naufragava nelle gelide e scure acque
dello sconforto.
Come se non bastasse, nell’aere gracchiava una zuccherosa ballata hard rock degli anni ’90, che non faceva che amplificare il disagio: un
capellone che parla d’ amore sconfinato e un desolante tracollo sentimentale a
pochi metri da te, era come avariare vivo .
Argo la conosceva da quando erano bambini, restando affatturato dalla cascata di capelli pel di carota che ella raccoglieva avvoltolati
sulla testa, meravigliosa appendice di un corpo sottile e slanciato che infondeva
in lui tanta sensualità quanta tenerezza. Gli occhi verdi ,le pregiate lentiggini a lato di un piccolo naso e le
rosee labbra sottili, erano il bersaglio dei suoi sguardi inebetiti e causa di
improvvisi cardiopalmi ogni volta che ella gli rivolgeva un “Buongiorno!”.
Ci volle poco perché da ragazzino si innamorò di lei, che vedeva entrare
quotidianamente in quella Farmacia fondata dalla sua famiglia, la “Farmacia
Rubedo”, che si dice fosse antichissima e fondata da un gruppo di alchimiste che
mantennero l’attività per generazioni.
Parte della gente del quartiere aveva una certa diffidenza nei confronti di quell' attività, covando un certo timore per quella stramba famiglia
numerosa e matriarcale, vittima di un’ agghiacciante maldicenza di supposta
stregoneria.
Argo invece di tutte quelle voci, se ne fregava. Essendo lui
un outsider nato, provava una naturale solidarietà per chi come lui era una
goccia d’olio nel mare del mondo: quelle persone non avevano mai creato il
minimo disagio a nessuno ,anzi erano disposte ad elargire cure a chiunque ne
necessitasse.
I saluti mattutini che avevano iniziato a scambiarsi, furono
la pia illusione che la miseranda massa celebrale di Argo produsse: migliaia di
fotogrammi mentali in successione
alternavano cene romantiche,
baci, sesso e una fuga lontano in cerca
di una vita pacifica, lasciando alle spalle tutto ciò che lo aveva reso poco
sorridente e poco incline allo stringere rapporti con qualcuno.
“Buonasera Argo!
Perdona noi, ritardati per taraffico. Hai dovuto aspettare morto?”
Argo non osò ridere di quella coppia di sfarfalloni
linguistici appena commessi da Sensei Takeda che, nonostante risiedesse nell’ex
territorio italiano da decenni, conservava ancora qualche problematicità lessicologica
dai risvolti involontariamente esilaranti.
L’arrivo del sensei lo
salvò dall’ acquitrino lacrimale in cui stava annegando e pian piano lo
stridere di sedie accanto a lui durante la seduta dei suoi nerboruti senpai e kohai, lo rinfrancarono un po’.
Pensò: “Meno male che
ci siete voi!” e dopo una sonante pacca su una spalla, il suo amico Gaoh
che ormai lo decrittava meglio di sua mamma, gli chiese: “ Arghetto, non sarai
mica in fissa per quella bella pelo rosso della farmacia? Lo sai che è una
strega,vero?!”
Lui replicò ricercando nell’archivio espressioni
facciali la migliore dell’ assortimento
e optò per quella da Gioconda e più
falso di un Modigliani livornese, disse :“Beh
sì è carina, ma non basta per farmene innamorare. La conosco così poco!”.
Gaoh non mollò la
presa: “Dai, che ho capito che la rossina ti piace! Non farlo sapere al Sensei,
hanno una vecchia disputa a proposito di un terreno dove doveva originariamente
sorgere il dojo…”
Purtroppo non poté ascoltare il resto della storia, perché
un battito di mani li richiamò all’ordine per iniziare la riunione per la quale
Takeda raccolse i suoi neo samurai:
“Qvesta setimana noi
di Dojo Takeda entrati ufficialmente in guera con dojo Phi. Loro responsabili
di aver sottaratto la nostra nafudakake. Nostero custode Jen, ridotto in fin di vita da
quei cani idrofobi nel tentativo di difendere onore di parestra. Io stabilito
con loro nuovo sensei che noi ci incontreremo a Parco 7 Novembore tra una settimana come luogo di guera. Se non vi sentite poronti, non solo non venire
a battaglia, ma non rientrare più al dojo. Qualcuno contrario?”
Non volò una mosca e nel frattempo i timpani di Argo lo
informarono che Bon Jovi aveva finalmente smesso di essere filodiffuso con suo
sommo sollievo.
L’unico rumore che si
percepì in quel breve ,ma intenso momento, fu lo stringere dei pugni del maestro a danno
di un tovagliolo: un rumore sinistro, simile alla corda sotto tensione di un
impiccato. L’imbarazzo dei suoi bushi nel vederlo con lo sguardo ombreggiato
dalla collera e dall’umiliazione, li rese davvero feroci. In aggiunta a ciò, il
pensiero del vecchio signor Jen in
prognosi riservata, persona cui tutti erano affezionati, rese difficoltoso
doversi trattenere dal prelevare i traditori dalle loro case per trasferirli in
un cimitero. Ciò che li arrestò era l’obbedienza al maestro e al codice samurai.
Nessuno di loro, agendo come il più infame dei ninja, si sarebbe mai sognato di
strisciare come serpi sotto casa loro per aggredirli coperti dalla notte.
“Samurai combatte in campo aperto, senza occultare faccia
perchè sue labbra devono essere libere per essere baciate da morte!” disse
Takeda un giorno.
Il furto di quella targhetta fu una tale onta per
sensei Takeda, che nessuno osò
correggere la sua pronuncia come solitamente eravamo abituati a fare. Il furto
della targa in legno era la peggior offesa che si potesse rivolgere ad un dojo,
seconda solo a piantare un wakizashi al centro del tatami.
“Ci troveremo a tempio
Sawamura per benedizione a ore 19.00.
Imparate a memoria il canto che vi ho inviato. Se fate ritardo raggiungerete noi
autonomamente, ma non potreremmo assicurarvi porotezione da eventuali imboscate
lungo taragitto. Mi raccomando, ricordate regole: recarsi a luogo vestiti da impiegati double face,
con divisa nascosta; se cadete durante lotta e siete coscienti, torovare posto
sicuro per nascondersi e sbarazzarsi di divisa. Se voi svenuti, noi sbarazzare per voi se ci riusciamo, altririmenti
che i kami vi assistano. Soprattutto niente armi, chiaro?” disse il maestro.
“OSU!” risposero gli
allievi in coro.
“Per conculudere :non
portate vostero pensiero a taraditori. Vostra guida sempre lui, il Mushin: mente vuota porta vittoria piena. E
ora, buono appetito a tutti.”
“OSU!” risposero
nuovamente gli allievi e la cena iniziò, ma l’inappetenza era diffusa. La guerra in vista nata da un
tradimento é una morsa sullo stomaco e nel caso di Argo c’era anche la delusione della bella farmacista che fu un
aperitivo a base di bile, per cui egli non riuscì a fare altro che trangugiare un po’ di thé verde.
Sulla via del ritorno fece un po’ di strada con il suo
senpai Yari chiedendogli qualche dettaglio su come riuscisse a proiettare con
o-goshi ogni povero sventurato arrischiasse un corpo a corpo con lui e
improvvisamente ebbe come il sentore che qualcosa di non umano lo stesse
seguendo, silenzioso, impalpabile e a suo agio nell’oscurità.
(continua)
(continua)
Nessun commento:
Posta un commento