martedì 27 marzo 2018

NII: cane da guerra.


Se l’ indisponenza e l’indisciplina fossero una coppia, avrebbero Gaoh come figlio.
Per quanto il suddetto fosse una mirabolante macchina da pugni, la sua attrattiva per il bushido era lo stesso che un gatto può avere nei confronti di una lavatrice.
“Oh Arghy, ma perché tutte le volte questa cazzata?! Non so manco di cosa parla questo vattelapigliare di canto che il sensei ci ha dato da imparare!” pontificò Gaoh.
È un canto buddista. Ci fa pregare prima di andare in battaglia preparandoci all’eventualità di restarci secchi. La via delle arti marziali non è fatta solo di cazzotti, ma anche di un sacco di rituali e dovresti saperlo dopo tutto questo tempo, che la via del samurai consiste nella morte.” rispose Argo.
Gaoh trasalì tastandosi vistosamente i genitali e disse: “Voi avete bollito i neuroni, altro che palle! Rituale o non rituale, a me sembra si distribuisca sfiga al mercato della rogna!”
In quel momento Gaoh percepì un’ immane forza stringere il tessuto della sua giacca issandolo verso l’alto, con tale potenza  da costringerlo a sollevarsi sulla punta dei piedi.
Gaoh si volse di scatto, travolto da un istintivo impeto di collera che si estinse di fronte a due piccoli occhi di chiarore artico di un senpai dalle proporzioni ciclopiche, Bak.
“Fate silenzio durante la preghiera o finirete pregando me di non farvi male.”
Gaoh farfugliò una serie di parole incomprensibili di cui l’unica simile a qualcosa di senso compiuto fu un timido “scusa”.
L’increspare dell’arcata sopraccigliare di Bak, faceva collegare i neuroni piuttosto velocemente perché contraddirlo non è un’opzione appropriata.
Bak era uno dei più vecchi allievi di Takeda, nonché uno dei più temuti e stimati. A dispetto di un fisico piuttosto morbido, la fluidità che mostrava nei movimenti, era qualcosa rasentante l’irreale. Il suo aspetto norreno caratterizzato dal suo cranio rasato e dalla sua folta barba bionda, ti facevano pensare durante una mischia, di combattere a fianco di un vichingo. Peccato che Bak il cui vero nome era Nicolai, era nipote di esuli della Confederazione degli Stati Slavi, scampati alla repressione ordita dal governo moscovita a danno dei dissidenti. Fu quando la nonna iniziò a fornire testimonianze sulla morte sospetta del  fratello la cui professione era quella di autore satirico, che temendo per la propria incolumità, fuggì con il marito oltre confine.
Per Argo fu un secondo maestro, anche se i metodi di Bak erano piuttosto rudi nel fargli comprendere gli errori commessi. Considerando che il nonno di Bak decise di svezzare il nipotino a pane, lotta libera  e Sambo, per Argo riuscire a decifrare quale atroce destino spettava ai suoi legamenti crociati in quel letale reticolo di braccia e arti inferiori in cui Bak intrappolava le sue gambe , era un rompicapo da brividi.
Con l’arrivo dei monaci pronti ad intonare il canto, Takeda si voltò verso i suoi samurai esclamando: “Ragazzi, ora silenzio e seguire canto.”; Argo si spazientì di fronte all’espressione annoiata di Gaoh, per cui si approssimò al gruppo dei veterani che stavano in prima fila. Necessitava di auto motivarsi e darsi forza, perché percepiva dentro di sé che la tensione pre-scontro, rischiava presto di mutare in panico.
Come nella sala trillò il suono di una campanella,  il monaco più anziano iniziò dolcemente a intonare le prime parole di un canto e qualche secondo dopo, l’intera sala levò un coro che lasciò Argo ammutolito.
L’energia diffusa da quelle voci all’unisono, furono come un’enorme marea che sbalzò Argo dall’ intirizzimento da ansia in cui  era raggelato, sollevandolo come una minuscola imbarcazione sobbalzata dal mare in tempesta.
Il cuore iniziò a percuotere il petto, gli occhi a stillare lacrime e la lingua slegò le briglie unendosi al coro. La paura cominciò a sbiadire e una fregola  feroce da violenza conquistò la sua mente, che si proiettò all’obbiettivo che si era prefissato: dimostrare al maestro che era ora di passarlo di grado.
Con il concludere della preghiera ordinati e silenziosi, i neo samurai iniziarono a dirigersi verso il parco. Persino Gaoh non proferiva parola e un sorriso inquietante gli si era steso in viso e avvicinandosi all’amico, disse:
“Argo, anche oggi come tutte le altre volte ti dico che, anche se mi stai cordialmente sui coglioni, è stato bello conoscerti!”
Argo rise, rispondendo: “Bene, per cui prima di morire ti confesso che se avessi il tuo destro, invece di voler correre da mammina come mi capita tutte le volte, mi sentirei molto più tranquillo.”
“Vedi ciccio, io la piglio come un gioco.” disse Gaoh. “Sarà che sono cresciuto nel Ghetou 4 di Bucarest e che quando ero un alto come una gamba di mio padre, già mi rullavo di botte in strada per cavare quattro spicci da spendere a caramelle con mio fratello. Come se non bastasse, quando mio zio ha cioccato quello che combinavo ha deciso di allenarmi ficcandomi nel giro della boxe a mani nude, dove son passato dagli spicci alle banconote. Considera che quando  i tuoi ti spingevano sull’altalena, mio zio  mi reggeva il sacco per farmi fare le ripetute. Per me piallare un pinco è come ingollare un mezzino di Asteria , fratele Argo. Un godurioso e rilassante viaggio verso la distruzione, mia o degli altri.”
Il Sole iniziava pigramente a discendere e il cielo a tinteggiare d’arancione. La magnificenza di quella luce che andava svanendo, lo fece riflettere sul fatto che poteva essere l’ultima volta in cui poteva compiacersi da uomo libero ,vivo o sano, di quella bellezza.
Valicata la soglia del parco, il gruppo deviò il sentiero e si infilò sotto una rete metallica divelta insinuandosi tra gli alberi;  pian piano i neo samurai cominciarono a svestirsi, lasciando cadere a terra  camicie e cravatte, indossando le giacche a rovescio ed esibendo il lato in cotone bianco di un dogi delle arti marziali. Tutti avevano con se una maschera da teatro Noh, con cui occultare il viso in caso di arrivo della milizia garantedosi l’anonimato.
Takeda era accigliato e taciturno: i suoi piccoli occhi sottili si intravedevano appena sotto il corrugarsi della sua fronte. Invitò i suoi uomini a sbrigarsi nel terminare di prepararsi e di bendarsi le mani ,quando un rapido e sinistro scricchiolio di ramaglie calpestate, fu il campanello d’allarme di una vile imboscata.
Vestiti delle loro maglie vermiglio su cui spiccava in caratteri thai la scritta “Phi” e con in vita il tradizionale Paa Kamaa, il dojo rivale assalì furiosamente i ragazzi di Takeda.
La fase iniziale di contatto in cui si formava la mischia, era la peggiore: riuscire a trovare un barlume di lucidità in quel gorgo di pugni e calci, era estremamente difficile.  
Per  quanto plasmare un corpo da combattimento sia faticoso , affilare la mente lo è ancora di più. Il coraggio poi, é qualcosa di non allenabile. In una situazione simile allineare corpo, mente e cuore, era l’agognata simmetria di ogni milite  in keikogi: questo nirvana lottatorio, prendeva il nome di mushin. Svuotare la mente e lasciare che il corpo si muovesse in modo spontaneo, era uno stato di beatitudine da combattimento che pochi riuscivano a raggiungere.
La testa della mischia è generalmente formata dai veterani e dietro di loro in ordine gerarchico, ci sono gli intermedi e i novizi: i primi vengono impegnati nel ricevere chi è riuscito a fare breccia attraverso la prima linea, oppure a dare il colpo di grazia a chi fiaccato da fatica e colpi ricevuti, restava isolato ; i secondi invece, erano  impiegati nel rimuovere le divise, a prestare primo soccorso o dare un breve cambio agli intermedi sfiancati.
L’unico momento in cui la possibilità di riacquistare un frammento di lucidità nel maremoto dello scontro, avviene quando un gruppo inizia a imporsi sull’altro, per cui le schiere iniziano a slegarsi aumentando le distanze tra loro.
Gaoh adorava questo momento: “Ooooh sì cazzo!” gridò,  centrando in piena mandibola con un gancio sinistro un ragazzotto tozzo e dai capelli rasati che in solitaria, gli si lanciò addosso finendo disteso dal pugno.
Argo invece, odiava essere in disordine durante lo lotta: ritrovarsi una mano bendata e l’altra con il bendaggio a penzoloni, lo fece infuriare.
Per quanto la delicatezza dei suoi modi lo rendevano il contendere delle donne che gli stavano intorno, la sua inaspettata ferocia in battaglia lo fece soprannominare  Inugami.
Argo scrutando la folla era alla ricerca di uno dei traditori, sicuro che privarlo del Paa Kama da consegnare al sensei poteva sicuramente garantirgli una promozione e un posto tra i veterani.
Uno dei due era già stato steso a pochi secondi dall’inizio della battaglia, colpito in pieno da un calcio circolare alto che diroccò il suo cranio mandandolo a cadere come un albero segato.
L’altro invece, era intento nel gingillarsi infruttuosamente  a forza di impacciati calci sulle gambe con un novizio.
“Sei mio, figlio di puttana!” pensò Argo e oltrepassando un pericoloso ondulare di corpi intenti a fronteggiarsi, raggiunse il traditore e gli presentò la sua gamba destra, calciando con la rapidità di un colpo di falcione naginata, dritto sul fianco del malcapitato.
Il suddetto mal assorbì il colpo, sbilanciandosi diversi passi indietro; Argo serrò  la distanza rapidamente e approfittando del fatto che il rivale era piegato con il busto in avanti per il dolore, chiuse tra le sue braccia come in una gogna  la testa e un braccio del nemico. Successivamente, distese la colonna vertebrale, costringendo l’ avversario a salire sulla punta dei piedi e scivolando con l’intero corpo sotto di lui, lo proiettò alle sue spalle catapultandolo con violenza al suolo.
I due ruzzolarono l’uno allacciato all’altro e Argo conservò la presa stringendo più che poté sino a quando il rivale asfissiando per la presa al collo, svenne.
Argo svestì in fretta e furia la cintura thai dal suo avversario e innalzandola sopra il capo guardò Takeda che, a pochi metri da lui, poté entusiasmarsi del trofeo appena conquistato dal suo deshi.
Sfortunatamente Argo non ebbe neppure il tempo di godere della vittoria ottenuta che, un terzo incomodo vestito di una minacciosa divisa militare, fece il suo ingresso in scena.
L’arrivo della milizia fu un imprevisto nubifragio gelato che estinse rapidamente l’ardere del conflitto, mandando scompostamente in fuga ogni guerriero sul campo in grado di allontanarsi.
Fu fatale per Argo non accorgersi che il suo caino rivale che credeva  tra le soporose braccia di Morfeo, aveva dissotterrato un coltello celato preventivamente sotto una pietra in caso le cose si fossero messe male.
Con infame freddezza assassina, il traditore accoltellò ripetutamente Argo lasciandolo facile preda dei miliziani.
(continua)

domenica 11 marzo 2018

EXTRA ROUND: Argo tra i lupi.



Mi sentivo come un pulcino in mezzo ad una gelida macchia abitata da lupi in piena battuta di caccia con prole affamata al seguito: trasferirmi dalla città alla provincia in tenera età, mollando amici e  strade conosciute, è stato come un terzo round a gomitate al Lumpinee.
Durante il mio primo giorno di scuola tentavo di asfissiare il senso di emarginazione azzardando goffamente di socializzare con gli altri bambini, auspicando di trovare qualcuno che come il sottoscritto cercasse di fare branco, ma non ebbi successo. C’era già una piccola ghenga di locali familiarizzata dai tempi dell’asilo e riuscire ad incunearmi attraverso il testudo di diffidenza inculcatagli dalla vita di paese, pareva impresa impossibile.
L’edificio scolastico era vecchio e cadente; avrei potuto vincere una gara di apnea per via del miasma di urina che giungeva dai bagni, che mi portava ad orinare turandomi il naso. Nei pochi brevi attimi in cui ero costretto ad usare due mani per fare qualcosa (come ad esempio, allacciarmi i pantaloni) , lo passavo trattenendo il fiato.
Avrei preferito ingoiare una manciata di chiodi che farmi penetrare le narici dal devastante fetore proveniente da quegli scarichi semi-ingorgati, vecchi e sporchi: immaginavo che potesse imputridirsi il naso cadendo rinsecchito in una delle pozze di urina da bersaglio mancato che qualche pene mal impugnato aveva creato.
Porte e muri erano riempiti di graffiti rupestri che riuscii ad intrepretare quando il mio processo di alfabetizzazione raggiunse un livello tale da decifrare un imponente “PRESIDE PUTTANA” scritto con un pennarello. Lo stravagante disegno simile al muso di un coniglio messo di sbieco, scoprii in seguito che si trattava di un rozzo esperimento di astrattismo raffigurante un membro maschile.
Fu durante una delle mie tante uscite dall’aula per la mia quotidiana sessione di apnea da cesso, che mi imbattei per la prima volta in qualcosa che non sapevo che sarebbe stata parte della mia esistenza negli anni a venire. Fui attratto da rumore di tonfi, frusciare di tessuto e inspiri pesanti: in un corridoio laterale che portava verso una rampa di scale, due studenti più grandi combattevano corpo a corpo. I loro giacchettini neri di studenti elementari sembravano un’ unica materia mobile, sulla quale solo le mani svettando sui tessuti scuri, concedevano alla mia mente di comprendere cosa stesse succedendo in quell’intreccio di corpi.
Erano al suolo, uno dei due conteneva fisicamente l’altro con il proprio peso in una sorta di rozzo kesa gatame e con una mano libera, attendeva nel caos di corpi che sbatacchiavano come tonni pescati, uno spiraglio per poter colpire. Improvvisamente il bambino immobilizzato, svincolandosi dalla presa del suo avversario e scivolando alle sue spalle, di risposta incastonò una serie di pugni sulla schiena del suo aggressore avventandosi su di lui per sfamare la sua collera.
La porta scorrevole di un’aula lì vicino si spalancò con tanto impeto che, per la sorpresa, arretrai di un passo. Una maestra comparve sulla scena ad una velocità irreale e il suo cervello non ci mise molto ad elaborare l’accaduto.
Con un’espressione che avrebbe raccapricciato persino un orso grizzly, urlò: “In presidenza, SUBITO!”
Ringraziai di non essere loro,  non solo perché il rientro a casa sarebbe stato come finire di fronte ad un plotone di esecuzione, ma perché all’epoca eravamo ai primordi della legge Militaris Augendae, per cui aleggiava sul mondo la fobia collettiva da artista marziale.
A quei tempi bastava che due vecchietti si accapigliassero per una quisquiglia di vicinato, per gridare al terrorismo sui quotidiani.
L’angoscia globale germogliò a causa di un accadimento avvenuto in estremo oriente, ove il proprietario di una catena di Hotel di lusso acquisì un terreno su di una montagna denominata  “Il Monte dei Tengu”, ove era presente un tempio secolare abitato da monaci dediti allo studio e alla diffusione delle arti marziali.
Vedendosi recapitare un avviso governativo che li esortava ad abbandonare l’area e a raggiungere dei containers assegnati loro come nuova soluzione abitativa, decisero di rinchiudersi nel monastero diramando un comunicato ove annunciavano la propria determinazione a non lasciare il tempio.
“La sacralità della nostra forgeria  in cui si trova la pace attraverso la lotta lordata dalla “civiltà” del denaro, ci spinge a resistere affondando ancor di più le nostre radici in questa terra benedetta”.
Il comitato olimpico minacciò di annullare le competizioni marziali in caso di sgombero del tempio; attivisti per i diritti umani e praticanti di arti marziali da ogni parte del globo, si raccolsero fuori dall’edificio.
Dopo circa una settimana di negoziazioni non andate a buon fine, il Monte dei Tengu vide albeggiare non tanto la luce del Sole ,quanto quella blu di decine di mezzi della polizia da cui fuoriuscirono centinaia di poliziotti con una prurigine da manganello irrefrenabile. Un’enorme macchia nera di agenti si disponeva minacciosamente di fronte a centinaia di praticanti di arti marziali pronti a difendere l’assedio.
 “Mantenete la calma monaci, amici e devoti: restate intorno alle mura. La  luce del Buddah illuminerà le anime dei fratelli poliziotti.” disse il religioso più anziano ad un megafono facendosi strada tra gli occupanti in direzione degli agenti.
Come il piccolo monaco si mise di fronte agli agenti, fece giusto in tempo a portare il megafono alla bocca che un candelotto lacrimogeno lo centrò ad una tempia, lasciandolo disteso come un burattino dai fili tranciati.
Fu come dare una bastonata ad un alveare: sciamarono  in preda al furore di un guerriero Amok, centinaia di combattenti che si rovesciarono contro la prima linea di poliziotti mandandola in fuga. I Bokken iniziarono a distribuirsi tra la folla calando sui gendarmi che non poterono nemmeno contare sulla protezione del fumo del Gas CR perché come per intervento divino, la brezza montana la trascinò via . L’incapacità da parte delle forze dell’ordine di gestire la situazione fu tale di fronte a quei praticanti così ben addestrati, che dopo quattro giorni di scontri, persero così tanto terreno da ritrovarsi a vigilare una barricata ai piedi del monte quasi un kilometro più a valle.
Quel che ci ingannò fu pensare che costoro potessero averla vinta contro un governo e che magari anche il resto della popolazione piegata al giogo del potere, potesse fare lo stesso.
A mettere a tacere l’inganno ci pensò il primo ministro della macro-nazione della Federazione degli stati d’Oriente facendo intervenire l’esercito.
 “Il massacro della forgeria celeste” passò alla storia come una delle più gravi stragi di governo del nostro secolo. Chi durante l’intervento dei soldati non riuscì a scappare, cadde sotto i proiettili dei fucili o venne arrestato e condannato alla pena capitale.  
Una decina di monaci vennero trovati impiccati a dei ciliegi sacri sotto i quali moltissimi secoli prima, vennero seppelliti decine di samurai morti in battaglia in epoca Sengoku. Fonti governative asserirono che fu suicidio; numerose testimonianze da parte della popolazione locale invece, sostenne sia stata opera dei soldati che lo fecero perché ritrovatisi privi di munizioni.
Il mondo si divise tra chi inorridito ed indignato condannava tale atto e chi invece riteneva necessario stabilire l’ordine anche al prezzo di uno spargimento di sangue.
“L’armata dei 400 Tengu” fu un gruppo clandestino che si formò nel tentativo di rovesciare il governo della Federazione vendicando la strage, ma fu presto fiaccato dall’infiltrazione di agenti segreti governativi. Fu facile da parte di agenti infiltrati stimolare le cellule più fanatiche dedite al culto di Hachinman spingendoli a sanguinari atti di terrorismo, il cui epilogo fu la messa al bando dei dojo e della pratica marziale al di fuori delle forze di sicurezza.
I governi consci del fatto che le arti di combattimento potevano costituire un possibile mezzo di sovversione, decisero di emanare le Militaris Augendae per disarmare la popolazione  riducendo al minimo il rischio di insurrezioni.
Cody Van Pelth, un giornalista sportivo olandese e noto ex atleta di boxe thailandese, fece un’inchiesta su quella che definì la “repressione sporca” della F.S.O., dimostrando tramite intercettazioni e documenti trafugati da hacktivisti, l’operato governativo.
Nonostante le prove schiaccianti pubblicate sul suo giornale, la macchina di propaganda governativa fu così potente nel diffamare il mondo delle arti marziali, che l’opinione pubblica non se ne curò.
Costretti alla clandestinità sorsero dojo nascosti in tutto il mondo e la nostra voglia di combattere non cessò, ma si radicalizzò inasprendosi pericolosamente.
Fu quando conobbi il sensei Takeda che salvandomi la vita, rimasi incantato dalla letale ed elegante arte marziale da lui creata, il Surudoi Te Jitsu, che finii a mia volta ad  allernarmi nel dojo clandestino sul retro del teatro Kabuki che gestiva  quando il Sole sparisce.

domenica 4 marzo 2018

ICHI: con un jishin nel petto.



Come la vide entrare nel locale, il cuore di Argo iniziò a palpitare energicamente come tutte le volte che la incontrava: nemmeno i violenti kumite del dojo in vista di una battaglia, gli provocavano tali detonazioni cardicache  . Pensò che fosse così strano che amore e paura, provocassero la medesima sensazione corporea.
Restò a guardarla ammaliato  fiutandone il profumo floreale che si era lasciata alle spalle, che tanto gli ricordava la fioritura primaverile dei boschi vicino a casa sua. Nulla lo rendeva fragile come le donne, lui che si considerava lontano dalle debolezze; qualcuno lo avrebbe definito un duro ,ma egli si sentiva piuttosto un “indurito”: indurito da un padre anaffettivo; indurito dalla quasi mancanza di amici in fase adolescenziale; indurito  dai bulli a scuola; indurito da datori di lavoro tronfi e ignoranti ; indurito dal fatto dal sentirsi incompreso e che gli unici che sembravano capirlo, vivevano con lui la clandestinità di un dojo abusivo.
Fu quando vide riaprire la porta, che un giovane uomo molto alto e magro e avvolto in un lungo soprabito nero ,che  le sue palpitazioni si appaiarono  ad un’orribile morsa alla gola: quel giovane dalla fronte velata da un cespo di lucidi capelli corvini, che facevano da sipario ad un paio di occhi verde smeraldo incassati in un viso dai tratti delicati, si sedette sulla sedia dirimpetto a lei che come lo vide, distese le labbra in un sorriso che avrebbe placato persino un berserkr in preda a furore assassino.
“Potrebbe essere un suo amico” fu un pensiero palliativo così stupido da farlo vergognare: di  fronte alla gemellarità di ciò che facevano i due nel passarsi un bicchiere, nel condividere del cibo e in generale dallo scambiarsi piccole attenzioni, era chiaro che non solo avevano una relazione, ma che era datata e profonda.
Più guardava i radiosi sorrisi con cui rischiarava il volto del suo caliginoso cavaliere, più Argo naufragava nelle gelide e scure acque dello sconforto.
Come se non bastasse, nell’aere gracchiava una zuccherosa ballata hard rock degli anni ’90, che non  faceva che amplificare il disagio: un capellone che parla d’ amore sconfinato e un desolante tracollo sentimentale a pochi metri da te, era come avariare vivo .
Argo la conosceva da quando erano bambini, restando  affatturato dalla cascata di capelli  pel di carota che ella raccoglieva avvoltolati sulla testa, meravigliosa appendice di un corpo sottile e slanciato che infondeva in lui tanta sensualità quanta tenerezza. Gli occhi verdi ,le pregiate  lentiggini a lato di un piccolo naso e le rosee labbra sottili, erano il bersaglio dei suoi sguardi inebetiti e causa di improvvisi cardiopalmi ogni volta che ella gli rivolgeva un “Buongiorno!”.
Ci volle poco perché da ragazzino si innamorò di lei, che vedeva entrare quotidianamente in quella Farmacia fondata dalla sua famiglia, la “Farmacia Rubedo”, che si dice fosse antichissima e fondata da un gruppo di alchimiste che mantennero  l’attività per generazioni.
Parte della  gente del quartiere aveva una certa diffidenza nei confronti di quell' attività, covando un certo timore per quella stramba famiglia numerosa e matriarcale, vittima di un’ agghiacciante maldicenza di supposta stregoneria.
Argo invece di tutte quelle voci, se ne fregava. Essendo lui un outsider nato, provava una naturale solidarietà per chi come lui era una goccia d’olio nel mare del mondo: quelle persone non avevano mai creato il minimo disagio a nessuno ,anzi erano disposte ad elargire cure a chiunque ne necessitasse.
I saluti mattutini che avevano iniziato a scambiarsi, furono la pia illusione che la miseranda massa celebrale di Argo produsse: migliaia di fotogrammi mentali in successione  alternavano  cene romantiche, baci, sesso e  una fuga lontano in cerca di una vita pacifica, lasciando alle spalle tutto ciò che lo aveva reso poco sorridente e poco incline allo stringere rapporti con qualcuno.
“Buonasera Argo! Perdona noi, ritardati per taraffico. Hai dovuto aspettare morto?”
Argo non osò ridere di quella coppia di sfarfalloni linguistici appena commessi da Sensei Takeda che, nonostante risiedesse nell’ex territorio italiano da decenni, conservava ancora qualche problematicità lessicologica dai risvolti involontariamente esilaranti.
L’arrivo del sensei  lo salvò dall’ acquitrino lacrimale in cui stava annegando e pian piano lo stridere di sedie accanto a lui durante la seduta dei suoi nerboruti senpai e kohai, lo rinfrancarono un po’.
Pensò: “Meno male che ci siete voi!” e dopo una sonante pacca su una spalla, il suo amico Gaoh che ormai lo decrittava meglio di sua mamma, gli chiese: “ Arghetto, non sarai mica in fissa per quella bella pelo rosso della farmacia? Lo sai che è una strega,vero?!”
Lui replicò ricercando nell’archivio espressioni facciali  la migliore dell’ assortimento e  optò per quella da Gioconda e più falso di un Modigliani livornese, disse :“Beh sì è carina, ma non basta per farmene innamorare. La conosco così poco!”.
Gaoh non mollò la presa: “Dai, che ho capito che la rossina ti piace! Non farlo sapere al Sensei, hanno una vecchia disputa a proposito di un terreno dove doveva originariamente sorgere il dojo…”
Purtroppo non poté ascoltare il resto della storia, perché un battito di mani li richiamò all’ordine per iniziare la riunione per la quale Takeda raccolse i suoi neo samurai:
“Qvesta setimana noi di Dojo Takeda entrati ufficialmente in guera con dojo Phi. Loro responsabili di aver sottaratto la nostra nafudakake. Nostero custode Jen, ridotto in fin di vita da quei cani idrofobi nel tentativo di difendere onore di parestra. Io stabilito con loro nuovo sensei che noi ci incontreremo a Parco 7 Novembore  tra una settimana come luogo di guera.  Se non vi sentite poronti, non solo non venire a battaglia, ma non rientrare più al dojo. Qualcuno contrario?”
Non volò una mosca e nel frattempo i timpani di Argo lo informarono che Bon Jovi aveva finalmente smesso di essere filodiffuso con suo sommo sollievo.
L’unico rumore che  si percepì in quel breve ,ma intenso momento,  fu lo stringere dei pugni del maestro a danno di un tovagliolo: un rumore sinistro, simile alla corda sotto tensione di un impiccato. L’imbarazzo dei suoi bushi nel vederlo con lo sguardo ombreggiato dalla collera e dall’umiliazione, li rese davvero feroci. In aggiunta a ciò, il pensiero del vecchio signor  Jen in prognosi riservata, persona cui tutti erano affezionati, rese difficoltoso doversi trattenere dal prelevare i traditori dalle loro case per trasferirli in un cimitero. Ciò che li arrestò era l’obbedienza al maestro e al codice samurai. Nessuno di loro, agendo come il più infame dei ninja, si sarebbe mai sognato di strisciare come serpi sotto casa loro per aggredirli coperti dalla notte.
“Samurai combatte in campo aperto, senza occultare faccia perchè sue labbra devono essere libere per essere baciate da morte!” disse Takeda un giorno.
Il furto di quella targhetta fu una tale onta per sensei  Takeda, che nessuno osò correggere la sua pronuncia come solitamente eravamo abituati a fare. Il furto della targa in legno era la peggior offesa che si potesse rivolgere ad un dojo, seconda solo a piantare un wakizashi al centro del tatami.
“Ci troveremo a tempio Sawamura per benedizione  a ore 19.00. Imparate a memoria il canto che vi ho inviato. Se fate ritardo raggiungerete noi autonomamente, ma non potreremmo assicurarvi porotezione da eventuali imboscate lungo taragitto. Mi raccomando, ricordate regole: recarsi a luogo vestiti da impiegati double face, con divisa nascosta; se cadete durante lotta e siete coscienti, torovare posto sicuro per nascondersi e sbarazzarsi di divisa. Se voi svenuti,  noi sbarazzare per voi se ci riusciamo, altririmenti che i kami vi assistano. Soprattutto niente armi, chiaro?” disse il maestro.
OSU!” risposero gli allievi in coro.
“Per conculudere :non portate vostero pensiero a taraditori. Vostra guida sempre lui, il  Mushin: mente vuota porta vittoria piena. E ora,  buono appetito a tutti.”
“OSU!” risposero nuovamente gli allievi e la cena iniziò, ma l’inappetenza  era diffusa. La guerra in vista nata da un tradimento é una morsa sullo stomaco e nel caso di Argo c’era anche  la delusione della bella farmacista che fu un aperitivo a base di bile, per cui egli non riuscì a fare  altro che trangugiare un po’ di thé verde.
Sulla via del ritorno fece un po’ di strada con il suo senpai Yari chiedendogli qualche dettaglio su come riuscisse a proiettare con o-goshi ogni povero sventurato arrischiasse un corpo a corpo con lui e improvvisamente ebbe come il sentore che qualcosa di non umano lo stesse seguendo, silenzioso, impalpabile e a suo agio nell’oscurità.
(continua)