Se l’ indisponenza e l’indisciplina fossero una coppia,
avrebbero Gaoh come figlio.
Per quanto il suddetto fosse una mirabolante macchina da
pugni, la sua attrattiva per il bushido era lo stesso che un gatto può avere
nei confronti di una lavatrice.
“Oh Arghy, ma perché tutte le volte questa cazzata?! Non so manco
di cosa parla questo vattelapigliare di canto che il sensei ci ha dato da
imparare!” pontificò Gaoh.
“È un canto buddista. Ci fa pregare prima di andare in
battaglia preparandoci all’eventualità di restarci secchi. La via delle arti
marziali non è fatta solo di cazzotti, ma anche di un sacco di rituali e
dovresti saperlo dopo tutto questo tempo, che la via del samurai consiste nella
morte.” rispose Argo.
Gaoh trasalì tastandosi vistosamente i genitali e disse: “Voi
avete bollito i neuroni, altro che palle! Rituale o non rituale, a me sembra si
distribuisca sfiga al mercato della rogna!”
In quel momento Gaoh percepì un’ immane forza stringere il
tessuto della sua giacca issandolo verso l’alto, con tale potenza da costringerlo a sollevarsi sulla punta dei
piedi.
Gaoh si volse di scatto, travolto da un istintivo impeto di
collera che si estinse di fronte a due piccoli occhi di chiarore artico di un
senpai dalle proporzioni ciclopiche, Bak.
“Fate silenzio durante la preghiera o finirete pregando me di
non farvi male.”
Gaoh farfugliò una serie di parole incomprensibili di cui
l’unica simile a qualcosa di senso compiuto fu un timido “scusa”.
L’increspare dell’arcata sopraccigliare di Bak, faceva collegare i neuroni piuttosto velocemente perché contraddirlo non è un’opzione appropriata.
Bak era uno dei più vecchi allievi di Takeda, nonché uno dei
più temuti e stimati. A dispetto di un fisico piuttosto morbido, la fluidità
che mostrava nei movimenti, era qualcosa rasentante l’irreale. Il suo aspetto
norreno caratterizzato dal suo cranio rasato e dalla sua folta barba bionda, ti
facevano pensare durante una mischia, di combattere a fianco di un vichingo.
Peccato che Bak il cui vero nome era Nicolai, era nipote di esuli della
Confederazione degli Stati Slavi, scampati alla repressione ordita dal governo
moscovita a danno dei dissidenti. Fu quando la nonna iniziò a fornire
testimonianze sulla morte sospetta del
fratello la cui professione era quella di autore satirico, che temendo
per la propria incolumità, fuggì con il marito oltre confine.
Per Argo fu un secondo maestro, anche se i metodi di Bak
erano piuttosto rudi nel fargli comprendere gli errori commessi. Considerando
che il nonno di Bak decise di svezzare il nipotino a pane, lotta libera e Sambo, per Argo riuscire a decifrare quale
atroce destino spettava ai suoi legamenti crociati in quel letale reticolo di braccia e arti inferiori in cui Bak intrappolava le sue gambe , era un rompicapo da brividi.
Con l’arrivo dei monaci pronti ad intonare il canto, Takeda
si voltò verso i suoi samurai esclamando: “Ragazzi, ora silenzio e seguire
canto.”; Argo si spazientì di fronte all’espressione annoiata di Gaoh, per cui
si approssimò al gruppo dei veterani che stavano in prima fila. Necessitava di
auto motivarsi e darsi forza, perché percepiva dentro di sé che la tensione
pre-scontro, rischiava presto di mutare in panico.
Come nella sala trillò il suono di una campanella, il monaco più anziano iniziò dolcemente a
intonare le prime parole di un canto e qualche secondo dopo, l’intera sala levò
un coro che lasciò Argo ammutolito.
L’energia diffusa da quelle voci all’unisono, furono come un’enorme
marea che sbalzò Argo dall’ intirizzimento da ansia in cui era raggelato, sollevandolo come una minuscola
imbarcazione sobbalzata dal mare in tempesta.
Il cuore iniziò a percuotere il petto, gli occhi a stillare
lacrime e la lingua slegò le briglie unendosi al coro. La paura cominciò a sbiadire
e una fregola feroce da violenza conquistò
la sua mente, che si proiettò all’obbiettivo che si era prefissato: dimostrare
al maestro che era ora di passarlo di grado.
Con il concludere della preghiera ordinati e silenziosi, i
neo samurai iniziarono a dirigersi verso il parco. Persino Gaoh non proferiva
parola e un sorriso inquietante gli si era steso in viso e avvicinandosi
all’amico, disse:
“Argo, anche oggi come tutte le altre volte ti dico che, anche
se mi stai cordialmente sui coglioni, è stato bello conoscerti!”
Argo rise, rispondendo: “Bene, per cui prima di morire ti
confesso che se avessi il tuo destro, invece di voler correre da mammina come
mi capita tutte le volte, mi sentirei molto più tranquillo.”
“Vedi ciccio, io la piglio come un gioco.” disse Gaoh. “Sarà
che sono cresciuto nel Ghetou 4 di Bucarest e che quando ero un alto come una
gamba di mio padre, già mi rullavo di botte in strada per cavare quattro spicci
da spendere a caramelle con mio fratello. Come se non bastasse, quando mio zio ha
cioccato quello che combinavo ha deciso di allenarmi ficcandomi nel giro della
boxe a mani nude, dove son passato dagli spicci alle banconote. Considera che
quando i tuoi ti spingevano
sull’altalena, mio zio mi reggeva il
sacco per farmi fare le ripetute. Per me piallare un pinco è come ingollare un mezzino
di Asteria , fratele Argo. Un godurioso e rilassante viaggio verso la distruzione,
mia o degli altri.”
Il Sole iniziava pigramente a discendere e il cielo a tinteggiare
d’arancione. La magnificenza di quella luce che andava svanendo, lo fece riflettere
sul fatto che poteva essere l’ultima volta in cui poteva compiacersi da uomo
libero ,vivo o sano, di quella bellezza.
Valicata la soglia del parco, il gruppo deviò il sentiero e
si infilò sotto una rete metallica divelta insinuandosi tra gli alberi; pian piano i neo samurai cominciarono a
svestirsi, lasciando cadere a terra
camicie e cravatte, indossando le giacche a rovescio ed esibendo il lato
in cotone bianco di un dogi delle arti marziali. Tutti avevano con se una
maschera da teatro Noh, con cui occultare il viso in caso di arrivo della
milizia garantedosi l’anonimato.
Takeda era accigliato e taciturno: i suoi piccoli occhi sottili
si intravedevano appena sotto il corrugarsi della sua fronte. Invitò i suoi
uomini a sbrigarsi nel terminare di prepararsi e di bendarsi le mani ,quando un
rapido e sinistro scricchiolio di ramaglie calpestate, fu il campanello
d’allarme di una vile imboscata.
Vestiti delle loro maglie vermiglio su cui spiccava in
caratteri thai la scritta “Phi” e con in vita il tradizionale Paa Kamaa, il
dojo rivale assalì furiosamente i ragazzi di Takeda.
La fase iniziale di contatto in cui si formava la mischia,
era la peggiore: riuscire a trovare un barlume di lucidità in quel gorgo di
pugni e calci, era estremamente difficile.
Per quanto plasmare un
corpo da combattimento sia faticoso , affilare la mente lo è ancora di più. Il
coraggio poi, é qualcosa di non allenabile. In una situazione simile
allineare corpo, mente e cuore, era l’agognata simmetria di ogni milite in keikogi: questo nirvana
lottatorio, prendeva il nome di mushin. Svuotare la mente e lasciare che il
corpo si muovesse in modo spontaneo, era uno stato di beatitudine da combattimento
che pochi riuscivano a raggiungere.
La testa della mischia è generalmente formata dai veterani e
dietro di loro in ordine gerarchico, ci sono gli intermedi e i novizi: i primi vengono
impegnati nel ricevere chi è riuscito a fare breccia attraverso la prima linea,
oppure a dare il colpo di grazia a chi fiaccato da fatica e colpi ricevuti, restava
isolato ; i secondi invece, erano impiegati nel rimuovere le divise, a prestare
primo soccorso o dare un breve cambio agli intermedi sfiancati.
L’unico momento in cui la possibilità di riacquistare un frammento
di lucidità nel maremoto dello scontro, avviene quando un gruppo inizia a
imporsi sull’altro, per cui le schiere iniziano a slegarsi aumentando le
distanze tra loro.
Gaoh adorava questo momento: “Ooooh sì cazzo!” gridò, centrando in piena mandibola con un gancio
sinistro un ragazzotto tozzo e dai capelli rasati che in solitaria, gli si
lanciò addosso finendo disteso dal pugno.
Argo invece, odiava essere in disordine durante lo lotta:
ritrovarsi una mano bendata e l’altra con il bendaggio a penzoloni, lo fece infuriare.
Per quanto la delicatezza dei suoi modi lo rendevano il contendere
delle donne che gli stavano intorno, la sua inaspettata ferocia in battaglia lo
fece soprannominare Inugami.
Argo scrutando la folla era alla ricerca di uno dei
traditori, sicuro che privarlo del Paa Kama da consegnare al sensei poteva
sicuramente garantirgli una promozione e un posto tra i veterani.
Uno dei due era già stato steso a pochi secondi dall’inizio
della battaglia, colpito in pieno da un calcio circolare alto che diroccò il suo
cranio mandandolo a cadere come un albero segato.
L’altro invece, era intento nel gingillarsi infruttuosamente a forza di impacciati calci sulle gambe con un
novizio.
“Sei mio, figlio di puttana!” pensò Argo e oltrepassando un
pericoloso ondulare di corpi intenti a fronteggiarsi, raggiunse il traditore e
gli presentò la sua gamba destra, calciando con la rapidità di un colpo di
falcione naginata, dritto sul fianco del malcapitato.
Il suddetto mal assorbì il colpo, sbilanciandosi diversi
passi indietro; Argo serrò la distanza rapidamente
e approfittando del fatto che il rivale era piegato con il busto in avanti per
il dolore, chiuse tra le sue braccia come in una gogna la
testa e un braccio del nemico. Successivamente, distese la colonna vertebrale, costringendo
l’ avversario a salire sulla punta dei piedi e scivolando con l’intero corpo sotto
di lui, lo proiettò alle sue spalle catapultandolo con violenza al suolo.
I due ruzzolarono l’uno allacciato all’altro e Argo conservò
la presa stringendo più che poté sino a quando il rivale asfissiando per la
presa al collo, svenne.
Argo svestì in fretta e furia la cintura thai dal suo avversario
e innalzandola sopra il capo guardò Takeda che, a pochi metri da lui, poté entusiasmarsi del trofeo appena conquistato dal suo deshi.
Sfortunatamente Argo non ebbe neppure il tempo di godere della
vittoria ottenuta che, un terzo incomodo vestito di una minacciosa divisa militare,
fece il suo ingresso in scena.
L’arrivo della milizia fu un imprevisto nubifragio gelato che
estinse rapidamente l’ardere del conflitto, mandando scompostamente in fuga
ogni guerriero sul campo in grado di allontanarsi.
Fu fatale per Argo non accorgersi che il suo caino rivale che credeva tra le soporose braccia di Morfeo, aveva dissotterrato un
coltello celato preventivamente sotto una pietra in caso le cose si fossero messe male.
Con infame freddezza assassina, il traditore accoltellò ripetutamente Argo lasciandolo facile preda dei miliziani.
(continua)