domenica 4 marzo 2018

ICHI: con un jishin nel petto.



Come la vide entrare nel locale, il cuore di Argo iniziò a palpitare energicamente come tutte le volte che la incontrava: nemmeno i violenti kumite del dojo in vista di una battaglia, gli provocavano tali detonazioni cardicache  . Pensò che fosse così strano che amore e paura, provocassero la medesima sensazione corporea.
Restò a guardarla ammaliato  fiutandone il profumo floreale che si era lasciata alle spalle, che tanto gli ricordava la fioritura primaverile dei boschi vicino a casa sua. Nulla lo rendeva fragile come le donne, lui che si considerava lontano dalle debolezze; qualcuno lo avrebbe definito un duro ,ma egli si sentiva piuttosto un “indurito”: indurito da un padre anaffettivo; indurito dalla quasi mancanza di amici in fase adolescenziale; indurito  dai bulli a scuola; indurito da datori di lavoro tronfi e ignoranti ; indurito dal fatto dal sentirsi incompreso e che gli unici che sembravano capirlo, vivevano con lui la clandestinità di un dojo abusivo.
Fu quando vide riaprire la porta, che un giovane uomo molto alto e magro e avvolto in un lungo soprabito nero ,che  le sue palpitazioni si appaiarono  ad un’orribile morsa alla gola: quel giovane dalla fronte velata da un cespo di lucidi capelli corvini, che facevano da sipario ad un paio di occhi verde smeraldo incassati in un viso dai tratti delicati, si sedette sulla sedia dirimpetto a lei che come lo vide, distese le labbra in un sorriso che avrebbe placato persino un berserkr in preda a furore assassino.
“Potrebbe essere un suo amico” fu un pensiero palliativo così stupido da farlo vergognare: di  fronte alla gemellarità di ciò che facevano i due nel passarsi un bicchiere, nel condividere del cibo e in generale dallo scambiarsi piccole attenzioni, era chiaro che non solo avevano una relazione, ma che era datata e profonda.
Più guardava i radiosi sorrisi con cui rischiarava il volto del suo caliginoso cavaliere, più Argo naufragava nelle gelide e scure acque dello sconforto.
Come se non bastasse, nell’aere gracchiava una zuccherosa ballata hard rock degli anni ’90, che non  faceva che amplificare il disagio: un capellone che parla d’ amore sconfinato e un desolante tracollo sentimentale a pochi metri da te, era come avariare vivo .
Argo la conosceva da quando erano bambini, restando  affatturato dalla cascata di capelli  pel di carota che ella raccoglieva avvoltolati sulla testa, meravigliosa appendice di un corpo sottile e slanciato che infondeva in lui tanta sensualità quanta tenerezza. Gli occhi verdi ,le pregiate  lentiggini a lato di un piccolo naso e le rosee labbra sottili, erano il bersaglio dei suoi sguardi inebetiti e causa di improvvisi cardiopalmi ogni volta che ella gli rivolgeva un “Buongiorno!”.
Ci volle poco perché da ragazzino si innamorò di lei, che vedeva entrare quotidianamente in quella Farmacia fondata dalla sua famiglia, la “Farmacia Rubedo”, che si dice fosse antichissima e fondata da un gruppo di alchimiste che mantennero  l’attività per generazioni.
Parte della  gente del quartiere aveva una certa diffidenza nei confronti di quell' attività, covando un certo timore per quella stramba famiglia numerosa e matriarcale, vittima di un’ agghiacciante maldicenza di supposta stregoneria.
Argo invece di tutte quelle voci, se ne fregava. Essendo lui un outsider nato, provava una naturale solidarietà per chi come lui era una goccia d’olio nel mare del mondo: quelle persone non avevano mai creato il minimo disagio a nessuno ,anzi erano disposte ad elargire cure a chiunque ne necessitasse.
I saluti mattutini che avevano iniziato a scambiarsi, furono la pia illusione che la miseranda massa celebrale di Argo produsse: migliaia di fotogrammi mentali in successione  alternavano  cene romantiche, baci, sesso e  una fuga lontano in cerca di una vita pacifica, lasciando alle spalle tutto ciò che lo aveva reso poco sorridente e poco incline allo stringere rapporti con qualcuno.
“Buonasera Argo! Perdona noi, ritardati per taraffico. Hai dovuto aspettare morto?”
Argo non osò ridere di quella coppia di sfarfalloni linguistici appena commessi da Sensei Takeda che, nonostante risiedesse nell’ex territorio italiano da decenni, conservava ancora qualche problematicità lessicologica dai risvolti involontariamente esilaranti.
L’arrivo del sensei  lo salvò dall’ acquitrino lacrimale in cui stava annegando e pian piano lo stridere di sedie accanto a lui durante la seduta dei suoi nerboruti senpai e kohai, lo rinfrancarono un po’.
Pensò: “Meno male che ci siete voi!” e dopo una sonante pacca su una spalla, il suo amico Gaoh che ormai lo decrittava meglio di sua mamma, gli chiese: “ Arghetto, non sarai mica in fissa per quella bella pelo rosso della farmacia? Lo sai che è una strega,vero?!”
Lui replicò ricercando nell’archivio espressioni facciali  la migliore dell’ assortimento e  optò per quella da Gioconda e più falso di un Modigliani livornese, disse :“Beh sì è carina, ma non basta per farmene innamorare. La conosco così poco!”.
Gaoh non mollò la presa: “Dai, che ho capito che la rossina ti piace! Non farlo sapere al Sensei, hanno una vecchia disputa a proposito di un terreno dove doveva originariamente sorgere il dojo…”
Purtroppo non poté ascoltare il resto della storia, perché un battito di mani li richiamò all’ordine per iniziare la riunione per la quale Takeda raccolse i suoi neo samurai:
“Qvesta setimana noi di Dojo Takeda entrati ufficialmente in guera con dojo Phi. Loro responsabili di aver sottaratto la nostra nafudakake. Nostero custode Jen, ridotto in fin di vita da quei cani idrofobi nel tentativo di difendere onore di parestra. Io stabilito con loro nuovo sensei che noi ci incontreremo a Parco 7 Novembore  tra una settimana come luogo di guera.  Se non vi sentite poronti, non solo non venire a battaglia, ma non rientrare più al dojo. Qualcuno contrario?”
Non volò una mosca e nel frattempo i timpani di Argo lo informarono che Bon Jovi aveva finalmente smesso di essere filodiffuso con suo sommo sollievo.
L’unico rumore che  si percepì in quel breve ,ma intenso momento,  fu lo stringere dei pugni del maestro a danno di un tovagliolo: un rumore sinistro, simile alla corda sotto tensione di un impiccato. L’imbarazzo dei suoi bushi nel vederlo con lo sguardo ombreggiato dalla collera e dall’umiliazione, li rese davvero feroci. In aggiunta a ciò, il pensiero del vecchio signor  Jen in prognosi riservata, persona cui tutti erano affezionati, rese difficoltoso doversi trattenere dal prelevare i traditori dalle loro case per trasferirli in un cimitero. Ciò che li arrestò era l’obbedienza al maestro e al codice samurai. Nessuno di loro, agendo come il più infame dei ninja, si sarebbe mai sognato di strisciare come serpi sotto casa loro per aggredirli coperti dalla notte.
“Samurai combatte in campo aperto, senza occultare faccia perchè sue labbra devono essere libere per essere baciate da morte!” disse Takeda un giorno.
Il furto di quella targhetta fu una tale onta per sensei  Takeda, che nessuno osò correggere la sua pronuncia come solitamente eravamo abituati a fare. Il furto della targa in legno era la peggior offesa che si potesse rivolgere ad un dojo, seconda solo a piantare un wakizashi al centro del tatami.
“Ci troveremo a tempio Sawamura per benedizione  a ore 19.00. Imparate a memoria il canto che vi ho inviato. Se fate ritardo raggiungerete noi autonomamente, ma non potreremmo assicurarvi porotezione da eventuali imboscate lungo taragitto. Mi raccomando, ricordate regole: recarsi a luogo vestiti da impiegati double face, con divisa nascosta; se cadete durante lotta e siete coscienti, torovare posto sicuro per nascondersi e sbarazzarsi di divisa. Se voi svenuti,  noi sbarazzare per voi se ci riusciamo, altririmenti che i kami vi assistano. Soprattutto niente armi, chiaro?” disse il maestro.
OSU!” risposero gli allievi in coro.
“Per conculudere :non portate vostero pensiero a taraditori. Vostra guida sempre lui, il  Mushin: mente vuota porta vittoria piena. E ora,  buono appetito a tutti.”
“OSU!” risposero nuovamente gli allievi e la cena iniziò, ma l’inappetenza  era diffusa. La guerra in vista nata da un tradimento é una morsa sullo stomaco e nel caso di Argo c’era anche  la delusione della bella farmacista che fu un aperitivo a base di bile, per cui egli non riuscì a fare  altro che trangugiare un po’ di thé verde.
Sulla via del ritorno fece un po’ di strada con il suo senpai Yari chiedendogli qualche dettaglio su come riuscisse a proiettare con o-goshi ogni povero sventurato arrischiasse un corpo a corpo con lui e improvvisamente ebbe come il sentore che qualcosa di non umano lo stesse seguendo, silenzioso, impalpabile e a suo agio nell’oscurità.
(continua)

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