Mi sentivo come un pulcino in mezzo ad una gelida macchia
abitata da lupi in piena battuta di caccia con prole affamata al seguito: trasferirmi
dalla città alla provincia in tenera età, mollando amici e strade conosciute, è stato come un terzo
round a gomitate al Lumpinee.
Durante il mio primo giorno di scuola tentavo di asfissiare
il senso di emarginazione azzardando goffamente di socializzare con gli altri bambini,
auspicando di trovare qualcuno che come il sottoscritto cercasse di fare
branco, ma non ebbi successo. C’era già una piccola ghenga di locali familiarizzata
dai tempi dell’asilo e riuscire ad incunearmi attraverso il testudo di diffidenza
inculcatagli dalla vita di paese, pareva impresa impossibile.
L’edificio scolastico era vecchio e cadente; avrei potuto
vincere una gara di apnea per via del miasma di urina che giungeva dai bagni, che
mi portava ad orinare turandomi il naso. Nei pochi brevi attimi in cui ero
costretto ad usare due mani per fare qualcosa (come ad esempio, allacciarmi i
pantaloni) , lo passavo trattenendo il fiato.
Avrei preferito ingoiare una manciata di chiodi che farmi
penetrare le narici dal devastante fetore proveniente da quegli scarichi semi-ingorgati,
vecchi e sporchi: immaginavo che potesse imputridirsi il naso cadendo
rinsecchito in una delle pozze di urina da bersaglio mancato che qualche pene
mal impugnato aveva creato.
Porte e muri erano riempiti di graffiti rupestri che riuscii
ad intrepretare quando il mio processo di alfabetizzazione raggiunse un livello
tale da decifrare un imponente “PRESIDE PUTTANA” scritto con un pennarello. Lo stravagante
disegno simile al muso di un coniglio messo di sbieco, scoprii in seguito che si
trattava di un rozzo esperimento di astrattismo raffigurante un membro
maschile.
Fu durante una delle mie tante uscite
dall’aula per la mia quotidiana sessione di apnea da cesso, che mi imbattei per
la prima volta in qualcosa che non sapevo che sarebbe stata parte della mia
esistenza negli anni a venire. Fui attratto da rumore di tonfi, frusciare di
tessuto e inspiri pesanti: in un corridoio laterale che portava verso una rampa
di scale, due studenti più grandi combattevano corpo a corpo. I loro giacchettini
neri di studenti elementari sembravano un’ unica materia mobile, sulla quale
solo le mani svettando sui tessuti scuri, concedevano alla mia mente di
comprendere cosa stesse succedendo in quell’intreccio di corpi.
Erano al suolo, uno dei due conteneva fisicamente l’altro
con il proprio peso in una sorta di rozzo kesa gatame e con una mano libera, attendeva
nel caos di corpi che sbatacchiavano come tonni pescati, uno spiraglio per
poter colpire. Improvvisamente il bambino immobilizzato, svincolandosi dalla
presa del suo avversario e scivolando alle sue spalle, di risposta incastonò
una serie di pugni sulla schiena del suo aggressore avventandosi su di lui per
sfamare la sua collera.
La porta scorrevole di un’aula lì vicino si spalancò con
tanto impeto che, per la sorpresa, arretrai di un passo. Una maestra comparve
sulla scena ad una velocità irreale e il suo cervello non ci mise molto ad
elaborare l’accaduto.
Con un’espressione che avrebbe raccapricciato persino un
orso grizzly, urlò: “In presidenza, SUBITO!”
Ringraziai di non essere loro, non solo perché il rientro a casa sarebbe
stato come finire di fronte ad un plotone di esecuzione, ma perché all’epoca
eravamo ai primordi della legge Militaris Augendae, per cui aleggiava sul mondo
la fobia collettiva da artista marziale.
A quei tempi bastava che due vecchietti si accapigliassero
per una quisquiglia di vicinato, per gridare al terrorismo sui quotidiani.
L’angoscia globale germogliò a causa di un accadimento avvenuto
in estremo oriente, ove il proprietario di una catena di Hotel di lusso acquisì
un terreno su di una montagna denominata “Il Monte dei Tengu”, ove era presente un tempio
secolare abitato da monaci dediti allo studio e alla diffusione delle arti
marziali.
Vedendosi recapitare un avviso governativo che li esortava
ad abbandonare l’area e a raggiungere dei containers assegnati loro come nuova
soluzione abitativa, decisero di rinchiudersi nel monastero diramando un
comunicato ove annunciavano la propria determinazione a non lasciare il tempio.
“La sacralità della
nostra forgeria in cui si trova la pace
attraverso la lotta lordata dalla “civiltà” del denaro, ci spinge a resistere affondando
ancor di più le nostre radici in questa terra benedetta”.
Il comitato olimpico minacciò di annullare le competizioni
marziali in caso di sgombero del tempio; attivisti per i diritti umani e
praticanti di arti marziali da ogni parte del globo, si raccolsero fuori dall’edificio.
Dopo circa una settimana di negoziazioni non andate a buon
fine, il Monte dei Tengu vide albeggiare non tanto la luce del Sole ,quanto
quella blu di decine di mezzi della polizia da cui fuoriuscirono centinaia di
poliziotti con una prurigine da manganello irrefrenabile. Un’enorme macchia nera
di agenti si disponeva minacciosamente di fronte a centinaia di praticanti di
arti marziali pronti a difendere l’assedio.
“Mantenete la calma monaci, amici e devoti: restate
intorno alle mura. La luce del Buddah
illuminerà le anime dei fratelli poliziotti.” disse il religioso più
anziano ad un megafono facendosi strada tra gli occupanti in direzione degli
agenti.
Come il piccolo monaco si mise di fronte agli agenti, fece
giusto in tempo a portare il megafono alla bocca che un candelotto lacrimogeno
lo centrò ad una tempia, lasciandolo disteso come un burattino dai fili tranciati.
Fu come dare una bastonata ad un alveare: sciamarono in preda al furore di un guerriero Amok,
centinaia di combattenti che si rovesciarono contro la prima linea di
poliziotti mandandola in fuga. I Bokken iniziarono a distribuirsi tra la folla
calando sui gendarmi che non poterono nemmeno contare sulla protezione del fumo
del Gas CR perché come per intervento divino, la brezza montana la trascinò via
. L’incapacità da parte delle forze dell’ordine di gestire la situazione fu
tale di fronte a quei praticanti così ben addestrati, che dopo quattro giorni
di scontri, persero così tanto terreno da ritrovarsi a vigilare una barricata ai
piedi del monte quasi un kilometro più a valle.
Quel che ci ingannò fu pensare che costoro potessero averla
vinta contro un governo e che magari anche il resto della popolazione piegata
al giogo del potere, potesse fare lo stesso.
A mettere a tacere l’inganno ci pensò il primo ministro
della macro-nazione della Federazione degli stati d’Oriente facendo intervenire
l’esercito.
“Il massacro della forgeria celeste” passò
alla storia come una delle più gravi stragi di governo del nostro secolo. Chi
durante l’intervento dei soldati non riuscì a scappare, cadde sotto i
proiettili dei fucili o venne arrestato e condannato alla pena capitale.
Una decina di monaci vennero trovati impiccati a dei ciliegi
sacri sotto i quali moltissimi secoli prima, vennero seppelliti decine di
samurai morti in battaglia in epoca Sengoku. Fonti governative asserirono che
fu suicidio; numerose testimonianze da parte della popolazione locale invece,
sostenne sia stata opera dei soldati che lo fecero perché ritrovatisi privi di
munizioni.
Il mondo si divise tra chi inorridito ed indignato
condannava tale atto e chi invece riteneva necessario stabilire l’ordine anche
al prezzo di uno spargimento di sangue.
“L’armata dei 400
Tengu” fu un gruppo clandestino che si formò nel tentativo di rovesciare il
governo della Federazione vendicando la strage, ma fu presto fiaccato
dall’infiltrazione di agenti segreti governativi. Fu facile da parte di agenti
infiltrati stimolare le cellule più fanatiche dedite al culto di Hachinman
spingendoli a sanguinari atti di terrorismo, il cui epilogo fu la messa al
bando dei dojo e della pratica marziale al di fuori delle forze di sicurezza.
I governi consci del fatto che le arti di combattimento
potevano costituire un possibile mezzo di sovversione, decisero di emanare le
Militaris Augendae per disarmare la popolazione
riducendo al minimo il rischio di insurrezioni.
Cody Van Pelth, un giornalista sportivo olandese e noto ex
atleta di boxe thailandese, fece un’inchiesta su quella che definì la
“repressione sporca” della F.S.O., dimostrando tramite intercettazioni e
documenti trafugati da hacktivisti, l’operato governativo.
Nonostante le prove schiaccianti pubblicate sul suo
giornale, la macchina di propaganda governativa fu così potente nel diffamare
il mondo delle arti marziali, che l’opinione pubblica non se ne curò.
Costretti alla clandestinità sorsero dojo nascosti in tutto
il mondo e la nostra voglia di combattere non cessò, ma si radicalizzò inasprendosi
pericolosamente.
Fu quando conobbi il sensei Takeda che salvandomi la vita,
rimasi incantato dalla letale ed elegante arte marziale da lui creata, il Surudoi Te Jitsu, che finii a mia volta ad allernarmi nel dojo clandestino sul retro del teatro Kabuki che
gestiva quando il Sole sparisce.
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